Avrò avuto 9 o 10 anni quando mi è stata regalata, dai miei genitori, la prima macchina fotografica.
Era una sorpresa dentro il fustino del detersivo, eravamo negli anni sessanta.
Dalla macchinetta entrava luce da tutte le parti tranne che dall’obiettivo e le foto
erano piene di fiammate bianche, per tentare di
ovviare al difetto avevo messo degli elastici
ricavati da una camera d’aria di bicicletta a rinforzo della chiusura del dorso.
La mia seconda macchina fotografica.
Ero già grande, con la maturità tipica di un quattordicenne, quando
dopo mie ripetute
(e col senno di poi) noiose e sfinenti insistenze è arrivata la mitica “Eura Ferrania” formato quadrato 6×6.
La caricavo, la pellicola aveva la schiena di carta con i numeri che si vedevano attraverso la piccola finestrella rossa,
vedevi
il dito con l’indice che significava “attento” e poi il numero 1 ed eri
pronto a scattare,
dovevi ricordarti di far avanzare la rotella
dell’avvolgimento subito dopo lo scatto per non rischiare
la doppia
esposizione o saltare uno dei preziosi 12 fotogrammi. Potevi scegliere
il diaframma 8 cerchiato
di rosso per l’ombra, oppure 12 per il sole. Mettevi a fuoco sulla scala dell’obiettivo inquadravi e infine scattavi.
Poi riavvolgevo la pellicola, leccavo il bordo per attivare la colla e la portavo dal “fotografo”
.Dopo una settimana ecco le stampine formato bianco e nero 10 x 10 su carta fotografica smaltata.
Non era compatibile con le nuove pellicole a colori.
Sono seguite la biottica, la telemetro con l’otturatore
che qualche volta non si chiudeva completamente con il risultato
di strani disegni luminosi circolari sulle fotografie, la reflex “stop down”, la reflex dell’est con i primi automatismi d’esposizione
che funzionava una volta si e sei volte no.
Attualmente uso attrezzatura digitale professionale e non ho più l’ombra delle scusanti, ombra nella quale comodamente cercavo riparo
Io sono quello con gli occhiali appesi sulla maglietta.